Se l’albero potesse muoversi, e avesse piedi ed ali non penerebbe segato, né soffrirebbe ferite d’accetta. […] Anche se tu non hai piedi, scegli di viaggiare in te stesso, come miniera di rubini sii aperto all’influsso dei raggi del sole. O, uomo! Viaggia da te stesso in te stesso, ché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro. Avanza da amarezza ed acredine verso dolcezza, ché da suolo amaro e salato nascono mille specie di frutta!
Viaggio, Poesie mistiche, Gialâl ad-Dîn Rumî
Esiste in ogni singola persona una certa inspiegabile inquietudine di fronte alla propria esistenza. Un nucleo di tenera sensibilità ed aspirazione alla bellezza, alla vita, una fragilità così esposta da essere nascosta sin da subito, ai primi contatti con il nostro mondo opaco. Dopo la mia morte che cosa resterà di me, quel nucleo? Chi sono Io alla fine?
Da dove veniamo, chi siamo veramente, qual è la nostra storia?
Non sappiamo nulla di noi, non sappiamo il perché essenziale del nostro essere qui e ora. Il semplice “cogito” non basta per dire “sum”, con tutto il rispetto per Cartesio, e questo lo imparano subito gli studenti di psicologia, quando vengono a sapere che le fondamenta dell’identità poggiano sulla memoria.
Come individui, le nostre registrazioni mnemoniche risalgono all’età di circa tre anni. Prima di allora l’amnesia infantile regna fisiologicamente sovrana. Collegando la capacità di immagazinazione dei dati alla cellula neuronale, rischiamo di ridurre il nostro essere alle connessioni di tipo elettrico del corpo materiale o alla stupida analogia computazionale tra la mente e il computer, negando ciò che da migliaia di anni i grandi insegnamenti ci dicono: siamo esseri spirituali.
La sede della memoria, del pensiero, del linguaggio, dell’attenzione risiedono veramente in un ammasso organico di cellule? L’identità individuale si trova in un kilo e tre cento di massa organica? Ho dei seri dubbia a riguardo, ma non è qui che mi soffermerò su questo argomento. Ciò che voglio dire invece è che almeno per quanto riguarda la sede di natura spirituale del Sé siamo ben oltre la fisiologia organica.
Dov’è il nostro centro? Chi sono Io?
Ramana Maharshi è il mistico indiano che mi ha colpito in un modo inspiegabile sin dal momento in cui ho visto nelle foto il suo sguardo. Senza scrivere chi sa quanti trattati e senza distribuire su larga scala i suoi insegnamenti, Maharshi si è limitato soltanto a rispondere con una chiarezza straordinaria alla domanda Chi sono Io?
La domanda da un milione di dollari.
1. Chi sono io? Io non sono il corpo materiale, composto dai sette umori (dhatus). Io non sono i cinque sensi di percezione: udito, gusto, olfatto, tatto e vista, insieme ai rispettivi oggetti – suono, sapore, odore, tocco e visione. Io non sono i cinque organi conoscitivi: gli organi del parlare, della deambulazione, della tattilità, di escrezione e di procreazione, con le relative funzioni – parlare, muoversi, toccare, secernere e godere. Io non sono i cinque soffi vitali, prana, ecc., che permettono rispettivamente le cinque funzioni – inspirazione, ecc. Io non sono finanche la mente che pensa. Io non sono nemmeno la memoria, che concerne solo le impressioni residue degli oggetti e in cui non vi sono né gli oggetti né le funzioni. 2. Se io non sono nessuno di questi, chi sono? Dopo aver negato tutto questo, attraverso il “non questo”, “non questo”, quella Consapevolezza che sola rimane – Quella io sono.
Ramana maharshi, chi sono io? nan yar?
Io sono ciò di cui sono consapevole!
Che cosa rimane dopo aver tolto le percezioni sensoriali, il respiro, l’energia vitale, il pensiero e la memoria? La consapevolezza di ciò che va oltre le funzioni interattive mentali e corporee. Ma per raggiungerla bisogna far silenziare i pensieri della mente. Un classico nella tradizione meditativa orientale, difficilissimo da realizzare per un occidentale iperattivo.
Maharshi invece adotta una posizione molto pratica e spiega il segreto del suo raggiungimento in dettaglio:
Il pensiero Io nasce nel Cuore
Ciò che appare quale “io” in questo corpo è la mente. Se qualcuno cercasse, nel corpo, dove per primo sorge il pensiero “io”, scoprirebbe che nasce nel Cuore. Questo è il luogo d’origine della mente. Anche se si pensasse costantemente “io”, “io”, “io” … si arriverebbe là. Di tutti i pensieri che appaiono nella mente, il pensiero “io” è il primo. Solo dopo l’insorgenza di questo pensiero, tutti gli altri si manifestano.
Come intuivo, il segreto è il Cuore! La mente dell’Io non è collocabile nel cervello e non costituisce affatto la nostra essenza. L’inganno primordiale! Considerando che la fonte dei nostri pensieri si trovi nelle prime interazioni con le quali abbiamo iniziato a comunicare con l’ambiente, come dice Dewey nel suo libro Esperienza e Natura, e ricordandoci che Freud collocò il primo Io nel corpo, risulta logico che il primo Io sia emerso dal cuore, il centro del corpo.
Ma come si fa a pensare con il cuore?
Basta semplicemente ridurre le proiezioni mentali all’esterno, cioè pensare meno. Ovviamente quasi impossibile, soprattutto per un occidentale con mille impegni, e chi ha provato la meditazione lo sa molto bene. Ma ecco che l’essenza sia un’altra: bisogna collocare la mente all’interno del cuore e imparare a pensare partendo da lì.
Questo è il grande, immenso segreto!
Infatti, è risaputo che tutti noi siamo abituati a considerare la mente collocata all’interno della testa, dove guarda caso, si trovano anche gli organi di senso principali, gli occhi, le orecchie e il naso. La percezione è la via di collegamento centrale tra il mondo circostante e la mente, e noi siamo abituati erroneamente a collocarla alla testa. L’unico modo per far spegnere la prevalenza della percezione “mentale” rimane dunque lo spostamento della mente nel cuore, lì dove la percezione si riduce ad un battito viscerale.
L’esercizio più importante da fare non è dunque la rimozione inutile del pensiero, ma imparare a sentire e a pensare dal e con il cuore. Questa è la chiave della meditazione!
Il vuoto del Cuore
E ora improvvisamente mi spuntano in mente tutte le associazioni con le cose che conoscevo già: il Sutra del cuore è il primo ed il più eclatante esempio. Nella traduzione di Thich Nhat Hanh troviamo nel “vuoto” del cuore non la separazione tra una mente percettiva sterilizzata e la consapevolezza del Sé, ma al contrario, la loro unione costruttiva, a conferma del principio fondamentale dell’unità.
Ascolta, Shariputra:
tutti i fenomeni portano il marchio del vuoto;
la loro vera natura e’ la natura
della non-nascita e non-morte
del non-essere e del non non-essere,
della non-impurità e della non-purezza,
della non-crescita e della non-decrescita. Questo è il motivo per cui nel vuoto
il corpo, le sensazioni, le percezioni,
le formazioni mentali e la coscienza
non sono entità con un sé separato.
Quindi pensare con il cuore non rifiuta il pensiero generato dalla percezione del nostro mondo sensoriale, ma lo include in una modalità percettiva più ampia e più sensibile.
L’inganno della parola “vuoto”
Importante non farsi ingannare dalla parola “vuoto”, che rappresenta secondo me la chiave delle maggiori incomprensioni.
Nella versione breve del Sutra del cuore troviamo questo passaggio:
Perciò nella vacuità non c’è forma né sensazione, né percezione, né discriminazione, né coscienza; Non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua, corpo, mente; Non ci sono forma né suono, odore, gusto, tatto, oggetti; né c’è un regno del vedere, e così via fino ad arrivare a nessun regno della coscienza; non vi è conoscenza, né ignoranza, né fine della conoscenza, né fine dell’ignoranza, e così via fino ad arrivare a né vecchiaia né morte; né estinzione di vecchiaia e morte; non c’è sofferenza, karma, estinzione, via; non c’è saggezza né realizzazione. Dal momento che non si ha nulla da conseguire, si è un bodhisattva.
Il problema è sempre stato come interpretare questa vacuità. Ramana Maharshi ci fornisce indirettamente la risposta: il vuoto significa in realtà il cuore!
“Pensare”, “respirare”, “vivere” con il cuore porta non al vuoto dell’esistenza, ma alla mancanza della conflittualità dualistica che ci spinge inevitabilmente verso la centralità fissa, immobile, lì dove l’azione e la reazione si neutralizzano in un abbraccio taoista, simbolo visto tante volte e mai pienamente compreso. Nel cuore la proiezione del mondo sensoriale operata abitualmente dalla mente si introverte diventando coscienza interiore.
Nel Cuore l’Io limitato dalla percezione sensoriale si espande alla percezione della natura
Quando la mente, che è sottile, si proietta tramite il cervello e gli organi di senso, appaiono i nomi e le forme materiali; quando invece rimane nel Cuore, il mondo dei nomi e delle forme scompare. Non proiettandola, ma ritenendola nel Cuore si ha ciò che viene chiamata “introversione o coscienza interiore” (antarmukha). Proiettando la mente fuori dal Cuore si ha invece ciò che vien detta “estroversione o coscienza esteriore” (bahirmukha). Allora, quando la mente è nel Cuore, l’”io”, che è l’origine di tutti i pensieri, scompare, e l’eterno Sé rifulge. Qualunque azione si compia, bisognerebbe farla senza alcuna egoità dell’“io”. Se si agisce in questo modo tutto apparirà come la natura di Shiva (Dio).
È tutto qui! L’inversione introiettiva, portare il mondo dentro di sé!
Poi salta in mente che della stessa inversione si parla in un piccolo saggio taoista sulla meditazione e il respiro, Il segreto del fiore d’oro, commentato da Jung. Qui, si parla del “metodo a ritroso”, il quale consiste nell’invertire non solo la direzione dello sguardo percettivo dall’esterno verso l’interno, ma anche l’esternazione del liquido seminale. Si tratta quindi della stessa esplorazione della propria interiorità, ma la finalità della meditazione taoista spiegata nel piccolo saggio supera la scoperta del Sé, puntando invece alla creazione dell’embrione spirituale.
Tornando a Ramana Maharashi e ai metodi pratici per compiere questa inversione introiettiva, le spiegazioni ulteriori sono limpide e scorrevoli. Ovviamente il metodo per eccellenza è l’auto osservazione!
12. Ci sono altri metodi per spegnere la mente? Non ci sono altri metodi adeguati oltre l’autoosservazione. Benché anche con altri metodi possa sembrare di aver placato la mente, essa poi risorgerà. Anche attraverso il controllo del respiro la mente si tranquillizza, ma solo finché il respiro rimane sotto controllo, non appena il respiro riprende liberamente, anche la mente ricomincia a muoversi e vagare, spinta dalle impressioni residue. L’origine è la stessa sia per il respiro che per la mente. Il pensiero, in verità, è la natura della mente. Il concetto di “io” è il primo pensiero della mente, e questa è l’egoità. È ciò da cui nasce l’egoità che origina anche il respiro.
Il controllo del respiro è la conseguenza del vivere dal cuore!
Le tecniche di respirazione nella meditazione servono, ma fino a un certo punto. L’obiettivo non è silenziare la mente, la quale naturalmente funzionerà come un’antenna perennemente funzionante, ma sintonizzarla al cuore in modo da poterla inserire al suo interno con l’aiuto del respiro.
Il respiro è la forma concreta della mente. Fino al momento della morte, la mente mantiene il respiro nel corpo, e quando il corpo muore la mente porta via con sé il respiro. Per questo motivo l’esercizio del controllo del respiro è solo un aiuto per placare la mente (manonigraha); esso non la distrugge (manonasa). Le pratiche di controllo del respiro, insieme alle meditazioni sulle forme del Divino, la ripetizione dei mantra, le restrizioni sul cibo ecc. sono semplici aiuti per placare la mente.
Una mente placata è capace di concentrarsi facilmente e di mettere in moto la forza della volontà. Ma spegnere del tutto la mente è soltanto un’illusione o un cammino senza uscita. Attraverso l’auto osservazione, il controllo della respirazione e l’alimentazione, ritrovare sé stessi diventa una realtà attuabile.
Anche l’alimentazione ha la sua parte, come sempre
Quando la mente si espande su infiniti pensieri, ogni pensiero è debole, ma quando i pensieri svaniscono la mente diventa concentrata e forte; per una mente così, la ricerca del Sé diventa facile. Di tutte le regole prescritte, quella relativa all’assunzione di cibi sattvici in quantità moderata è la migliore; osservando questa regola, la qualità sattvica della mente aumenta e questo aiuterà l’autoosservazione.
Nel caos della vita occidentale la meditazione del cuore richiede uno sforzo particolare se viene imposta come un esercizio yoga da realizzare in un determinato luogo o in un determinato momento della giornata. Per me rappresenta invece più un modo di vivere, di conoscere, di essere, si parla dal cuore, si guarda dal cuore, si respira dal cuore.
In questa prospettiva il mondo cambia completamente il volto, mentre al tuo interno aumenta non solo la pace, ma anche la profonda devozione per un Sé senza confini, unito al creato e allo stesso tempo rafforzato dalla ferrea volontà di proteggerlo, di coltivarlo, di espanderlo.
Quindi chi sono Io?
16. Qual è la natura del Sé? L’unica cosa che esiste veramente è il Sé. Il mondo, l’anima individuale e il Divino, sono sue manifestazioni. Come l’argento nella madreperla questi tre appaiono insieme e scompaiono insieme. Il Sé è ciò che rimane quando non c’è assolutamente più alcun pensiero “io”. Questo è il “silenzio”. Lo stesso Sé è il mondo, lo stesso Sé è l’“io”, lo stesso Sé è Dio; tutto è Shiva, il Sé.
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