La mancanza di comprensione che rovina puntualmente le nostre relazioni è dovuta soprattutto alla differenza dei punti di vista. Tutto qui. “Io dico una cosa e lui ne capisce un’altra.” oppure “Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare.” Ognuno ha la sua prospettiva e difficilmente sarebbe capace di adattarla per far posto ad un elemento di novità. Ok, ho scoperto l’acqua calda. Andiamo più a fondo.
Siamo molto bravi ad assimilare un’infinità di informazioni, ma soltanto una minima parte riusciamo ad inserirla nella propria prospettiva sul mondo per allargarla e far posto al nuovo, all’altro. Come mai?
Ciò che pensiamo è molto diverso da ciò che facciamo
Il nostro mondo interiore è collegato al mondo esterno lungo il filo della successione Pensieri -> Emozioni -> Azioni. All’interno domina il nostro Sé percepito, l’aspetto consapevole dell’Io, ciò che crediamo di essere e di fare. Di solito, crediamo di essere delle persone oneste, altruiste, capaci e molto in gamba.
Ovviamente, molto più in fondo e spesso ignorata, si trova la vocina della coscienza sommersa, la quale sussurra delle cose contrarie. Insieme ad altri voci che non ci fanno capire più nulla di chi siamo veramente. Vediamo quali.
Il Sé ideale e il Sé normativo: il papà dentro la testa
Il più significativo è il Sé ideale, il quale rappresenta l’ideale di ciò che vorremmo essere, e ricorda il modo in cui un bambino bassino guarda il suo altissimo papà. L’immagine paterna sta anche alla base delle le norme e dei valori su ciò che dovremmo sentire, dire, fare. C.L. Higgins, psicologo sociale, chiama questo aspetto il Sé normativo. Più tardi l’individuo maturo modificherà gli aspetti normativi e valoriali introiettati e si costruirà una sua coscienza individuale, a seconda delle proprie aspirazioni.
Quando il Sé ideale alza l’asticella degli ideali in modo esagerato, spesso il povero Sé percepito subisce una svalutazione pesante, che mette a repentaglio la sua identità e l’autostima. Sempre Higgins chiama questa differenza tra i due Sé come discrepanza cognitiva e ne distingue due conseguenze a seconda del Sé coinvolto.
La differenza tra ciò che dovremmo essere (il Sé normativo) e ciò che sentiamo di essere rappresenta una fonte continua di ansia, mentre la differenza tra ciò che vorremmo essere (il Sé ideale) e ciò che sentiamo di essere genera sconforto e scoraggiamento. Ora hai capito perché sei un tipo ansioso?
L’Ego narcisistico è la compensazione illusoria alle umiliazioni genitoriali
In questa situazione conflittuale spunta la testolina l’immancabile Ego. L’Ego è il frutto del pensiero dualistico, reattivo, è l’eroe narciso che prende impavido le difese del piccolo Sé percepito e si oppone alle pretese umilianti del genitore immaginario con la sua meravigliosa spada della superbia. Kohut, il terapeuta dei professionisti affermati, ma affetti dal senso di vuoto, lo chiamò il Sé grandioso esibizionista.
Tanto dannato dalla letteratura new age, in realtà l’Ego ha una funzione salvifica e ristoratrice. Gli arroganti e i “pieni di sé” non calpestano in realtà coloro che hanno intorno, quanto l’immaginario genitore svalutante che conservano dentro. La sua missione finisce nel momento in cui il piccolo Sé percepito assimila abbastanza informazioni sulla sua reale struttura da poter rinunciare alle difese per poter abbracciare la sincerità della propria coscienza.
La rimozione dell’Ego, sbandierata e invocata dagli addetti del buonismo settario di tipo religioso o pseudo spirituale, se viene effettuata prima del tempo può solo provocare il denudamento dannoso del re ancora troppo piccino per saper proteggersi da solo.
L’Ego è il narcisista compensativo, protegge una ferita, mentre il Sé ideale è l’autorità propositiva, rappresenta una meta.
Quindi, l’Ego non è identico con il Sé ideale. Il Sé ideale trova inizialmente la sua origine nell’immagine imposta o proposta dal genitore con i suoi costrutti valoriali (“Un brav’uomo lavora tutto il giorno”). Come abbiamo già detto, lungo la vita questa immagine sarà poi arricchita dai valori e dagli ideali ancor più alti dell’individuo maturo diventando ciò che vorremmo essere.
L’Ego o il Sé grandioso esibizionista nasce piuttosto come reazione al confronto svalutante del piccolo Sé non ancora formato con il Sé ideale. Per esempio, se il padre umilia il figlio perché non è abbastanza veloce in matematica, il Sé Ideale sarà qualcuno forte nei calcoli matematici, mentre l’Ego sarà qualcuno forte dieci volte di più in un altro campo, ma non la matematica.
Ora che abbiamo visto l’affollamento dei Sé nella nostra testa, andiamo a vedere ciò che si trova fuori.
Il mondo esterno spalanca le porte alla realtà.
Lì c’è il dominio del Sé reale. Un Sé reale che può essere lontano o vicino dal Sé percepito e dai suoi vari aspetti, a seconda delle interferenze delle immagini su ciò che dobbiamo essere – il Sé ideale, e su ciò che ci illudiamo di essere – l’Ego.
Il Sé reale è il più lontano dalla consapevolezza e si manifesta visibilmente attraverso le azioni, parole, gesti, la fisiologia del corpo. Ѐ l’immagine che presentiamo, consapevoli o meno, agli altri. Il Sé reale è l’iceberg della nostra personalità, la punta visibile da tutti, tranne che da noi stessi.
Perché non riusciamo a focalizzare bene i nostri comportamenti?
Il discorso ruota sempre tra la differenza tra dentro e fuori. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Il ponte tra IO e ME
Durante l’auto-osservazione l’osservatore soggetto, cioè l’Io, si trova all’interno, mentre l’oggetto da osservare, cioè il Me, si trova all’esterno. Tra l’Io e il Me c’è quel filo ingarbugliato di pensieri, emozioni e di azioni non sempre ben collegati.
La prospettiva esterna dell’osservatore addentrato in un mondo individuale chiuso è spesso molto diversa rispetto alla realtà esterna. Il Sé percepito all’interno è colui che ha spesso negli occhi la trave che gli impedisce di vedere il suo Sé reale.
Viceversa, nel caso in cui l’osservatore inconsapevolmente tende a considerare di più la situazione esterna, e qui parliamo di persone propensi all’adattamento e che facilmente compiacciono gli altri, l’intensità del processo esterno tende a sopraffare la percezione interna.
Questo cortocircuito trae origine dalla lontana inerzia infantile con la quale un bambino con i bisogni ancora insoddisfatti stenta di lasciare la sua zona di confort simbiotico. Un’inerzia chiamata passività e che si basa prevalentemente sulla svalutazione, un concetto analitico-transazionale.
Che cos’è la svalutazione?
La svalutazione è un meccanismo interno che induce le persone a minimizzare o ignorare aspetti di se stessi, degli altri o della situazione reale.
(J.L.Schiff, Analisi transazionale e cura delle psicosi, p.25)
La svalutazione spiega come mai ci confrontiamo così spesso con delle persone che valutano in un modo completamente diverso la nostra stessa realtà, come mai non riusciamo a capirci pur avendo di fronte lo stesso ambiente.
C’è, per esempio, chi preferisce di “chiudere gli occhi” davanti all’esistenza stessa di uno stimolo o di un problema, ignorando la loro importanza. “Non mi sono accorto che piangeva”. E qui ci si trova decisamente un ambito patologico. Sono i casi in cui si nega quasi l’evidenza e le sue quasi ovvie conseguenze immediate.
Si possono ignorare anche le possibilità di cambiamento dei problemi, non sapendo di essere capaci ad agire in questo senso. Qui si tratta soprattutto di una questione di “know how”, spesso l’ambiente di provenienza non offre le conoscenze necessarie per poter vincere l’inerzia e attivarsi al cambiamento. Ognuno ha alle spalle una storia personale molto diversa e, per quanto sembri incredibile, è molto probabile che gli altri non abbiano le stesse informazioni su come reagire di fronte ad un ostacolo o su come usare i mezzi a disposizione.
Le svalutazioni sono dei pezzi mancanti nella nostra coscienza che ci impediscono di individuare il contesto e di reagire nel modo appropriato. Possono essere delle sviste, dei piccoli dettagli ignorati, dei punti di vista troppo stretti da poter includere una visione ampia e risolutiva del problema da affrontare. Questa “cecità” trova l’origine al nostro interno, lì dove si annidano dei Sé incompleti, non aggiornati o addirittura malformati, carichi di cognizioni distorte, di immagini ormai sepolte nel passato, incastrati ancora nelle emozioni obsolete e nei ricordi decontestualizzati.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare della consapevolezza
Ecco dunque soltanto un cenno sul perché non ci capiamo.
La nostra vita interna è completamente diversa da quella esterna. Pare molto complicato, ma in realtà le linee generali sono abbastanza semplici. Applicate poi nella vita personale, possono portare ad eliminare quelle incomprensioni e piccole delusioni che rendono le relazioni quotidiane così spiacevolmente pesanti.
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