I genitori che si aspettano riconoscenza dai figli (e ce ne sono che addirittura la pretendono) sono come quegli usurai che rischiano volentieri il capitale per incassare gli interessi.” (Franz Kafka)
Secondo Freud le pulsioni sessuali sono il tentativo ingegnoso dell’organismo vivente di sfuggire all’impellenza della morte, prima o poi inevitabile. Pur riconducendo comunque alla morte, le chiamò pulsioni di vita. La riproduzione avviene in seguito alla pulsione più piacevole presente nella natura, la spinta di unirsi all’altro in un bisogno vulcanico di vivere. Il risultato dell’unione? I figli.
Non so se sia la morte o l’equilibrio ciò che indirizza la pulsione sessuale generatrice dei figli e del futuro, ma sicuramente Freud aveva ragione pensando che la creazione implicasse la distruzione del proprio Io. Narcisisticamente parlando.
Inconsapevolmente o meno, mettiamo al mondo dei figli per poter affondare ancora di più le nostre radici nella materia mortale, per sopravvivere ad un’esistenza per la quale non abbiamo trovato ancora la permanenza eterna. I nostri figli, quindi, devono essere i portatori della nostra essenza più preziosa, e consegneremo la staffetta nel disperato tentativo di sconfiggere la separazione forzata di cui non abbiamo capito il senso. Se ce l’ha.
Sin dal primo momento in cui arrivano strillando e scalciando con i pugni stretti, inizia l’esperienza più complessa che un essere umano possa mai avere su questa terra: allevare un figlio. Tirare su quell’esserino sarà un percorso estenuante di profonda crescita interiore, di cambiamento radicale, stravolgente. Perché avremo in permanenza l’intima sensazione di dover nutrire, amare e proteggere una parte autentica di noi stessi. Sangue del nostro sangue.
Il nostro più difficile percorso di sviluppo personale
Ciò che trasmetteremo ai nostri figli saranno le nostre idee, i nostri modi di vedere loro, le persone, il mondo, il nostro saper fare, il nostro modo di agire, di sentire, di pensare. I nostri figli si rispecchieranno nella nostra personalità ben distinta, ma con i suoi tantissimi limiti, e cercheranno di capire in che modo dovranno essere per poter ottenere il nostro amore, la nostra approvazione.
Dovranno capire bene quali siano i nostri valori, per poter distinguere tra ciò che consideriamo bene e ciò che rifiutiamo in quanto dannoso. Si sforzeranno di mangiare come vogliamo noi, parlare come vogliamo noi, vivere come vogliamo noi. E più larghe saranno le maglie delle nostre vedute, più chiari i nostri assunti morali e meno limitanti le nostre paure, più facilmente riusciranno a ritrovarsi uno spazio di libertà per poter costruirsi l’identità.
Altrimenti dovranno crearsi dei Sé ideali o fittizi che rientrino nella nostra accezione di vita, sacrificando i loro sogni sull’altare del nostro amore.
Nel caso in cui i nostri orizzonti di vita fossero troppo accorciati dai permessi che non abbiamo mai avuto, da paure mai superate, da pensieri mai confrontati con la realtà, avremmo dei figli storpi interiormente, arrabbiati, tristi, ansiosi, adattati o ribelli.
I ribelli faranno il contrario di ciò che li abbiamo insegnato, per dispetto, sfida e contestazione. Ma soprattutto perché saremmo stati sordi, ciechi o squilibrati ai loro bisogni. Troppo deboli o troppo autoritari, qual’è la differenza?
Gli ansiosi falliranno inevitabilmente le loro occasioni, perché non hanno visto in noi, non tanto il coraggio, quanto il come si fa a vincere la paura.
Gli arrabbiati, ribelli o meno, vivranno nella rabbia permanente contro qualsiasi cosa, perché non hanno avuto la libertà o la giustizia. Magari la libertà di poter scegliere, di poter sperimentare, di poter sbagliare. O magari il giusto giudizio.
Gli adattati saranno i figli perfetti, i cittadini perfetti, i lavoratori perfetti. Privi di mete, di iniziative, privi di gioia, privi di vita. Perché hanno ubbidito e basta, perché non hanno conosciuto in noi l’intraprendenza, la lotta per un ideale, un obiettivo, il permesso per poter vivere soffrendo, perdendo, rialzandosi, celebrando la vita.
I rassegnati, i lamentosi, i perdenti, i promiscui, i bugiardi, i ladri, i parassiti, i … saranno ciò che abbiamo voluto inconsapevolmente che loro diventassero.
Perché i figli non danno retta ai nostri no, alle nostre appassionate prediche, ma ai nostri fatti.
I figli vedono cosa facciamo, vedono le nostre maschere, le nostre paure, la nostra insicurezza, ci studiano attentamente, non per criticarci o rifiutarci, ma per valutare su quanto supporto possano contare da parte nostra.
I figli non ci vogliono perfetti, ci vogliono invece disposti a migliorare, capaci di comprendere di più, aperti ad ascoltarli e ad amarli. I figli sono un continuo invito all’autoconoscenza, alla crescita personale. Una crescita magari a ritmi disperati, perché non sia mai perdere un figlio per aver rifiutato di comprenderlo.
Una falsa tradizione ci dice che i genitori abbiano il compito di correggere la prole, che nasce imperfetta. Errore.
I risultati li stiamo vedendo ogni giorno intorno a noi. La stessa così detta tradizione impone il divieto di giudicare i genitori. Vero, giudicare mai, ma rivelare e contestare le loro ingiustizie o errori, cercare di svegliare i genitori assorti dal tetro ricordo della loro infanzia, quello sì. Non si parla mai male di un genitore, ma dei suoi comportamenti sbagliati, dovuti sicuramente alla sofferenza e al disagio vissuto in un passato sconosciuto ai figli, quello sì.
I figli vengono per rendere i genitori migliori, così come i genitori rendono i loro figli migliori, in un rapporto di reciprocità che salda i legami familiari in un amore costruito, condiviso, unico.
In realtà, i nostri figli ci vengono dati perché noi possiamo sperimentare l’amore incondizionato dell’anima innocente.
Sono i nostri figli la reale fonte di puro amore incondizionato.
I figli amano a prescindere i loro genitori. Lo fanno sin dal primo giorno, e non per un semplice istinto biologico di attaccamento. I nostri figli nascono con il cuore nella mano, arrivano colmi di amore per noi, i loro imperfetti genitori. Provano per noi un amore puro, che magari avremmo anche riconosciuto nel loro sguardo il primo giorno all’ospedale. Ma vai a vedere in quanti ce lo ricordiamo tra tante paure, sofferenze, tormenti.
Un amore al quale dovremmo imparare a corrispondere con altrettanta fiducia. Più di quanto siamo stati amati noi dai nostri vecchi genitori.
Commenti