Sono i tempi in cui dobbiamo comprendere bene il messaggio della sofferenza. Superare un dolore implica assimilare un insegnamento, che tu puoi utilizzare per aprire la porta della vita o quella della morte. Dipende da te.
Premesso che rimane comunque difficile trattare questo argomento con la lucidità di chi non conoscerà mai la profondità del dolore altrui. Cercherò soltanto di toccare alcuni aspetti di tipo cognitivo, consapevole che l’intensità della sofferenza abbia tutto il diritto di spazzare via la logica della mente fredda.
Qual è l’origine del dolore umano?
Partendo dalle cause fisiologiche, è chiaro che la condizione dell’essere vivente comporti inesorabilmente una stretta convivenza con il dolore fisico. Il sentire nella carne è inevitabile. Che sia provocata da un agente esterno o da un disagio interiore, la lesione organica provoca quel segnale pungente che mette l’uomo in allerta costringendolo all’azione.
Quindi il dolore acquista in questo senso il ruolo di avvertenza rispetto ad una situazione che necessita urgentemente un cambiamento. Più estesa è la lesione, più intenso è il segnale, il che significa che il dolore si trova in correlazione con l’entità del danno e la forza agente.
Anche psicologicamente il dolore segnala la necessità di cambiare la prospettiva mentale, ma qui le cose diventano più complicate, dato che spesso risulta difficile individuare la causa del dolore. L’essenza dell’introspezione è proprio l’indagine sull’origine della sofferenza interiore, e devo dire che questa sia l’indagine più appassionante e avventurosa che l’uomo può mai intraprendere. Per poi arrivare a capo del caotico labirinto personale scoprendo che la sofferenza non sia altro che una visione distorta sulla vita, su di sé e sulle relazioni. Ma questa è un’altra storia.
Nella teoria tragica del mondo classico il dolore e la morte sono parti integranti della vita, costituendo insieme un percorso esistenziale in cui la dimensione tragica si unisce alla felicità del benessere in una circolarità armoniosa, naturale. Difficile da accettare per l’uomo moderno, reduce del peccato originale al quale viene condannato dalla cultura ebraico-cristiana, un uomo infantilizzato, allevato alla scuola dell’onnipotenza tecnico-scientifica e dell’anestesia generale della sensibilità in tutte le sue forme.
Come si arriva all’accettazione del dolore?
Per poter comprendere fino in fondo come arrivare all’accettazione del dolore, prima di tutto bisogna classificare il dolore in due tipologie utilizzando le riflessioni freudiane sulla pulsione di distruzione e sulla libido. Nel suo excursus teorico, inizialmente Freud distingue tra le pulsioni libidiche sessuali e le pulsioni di autoconservazione, o dell’Io. Con l’approfondimento del narcisismo, Freud nota invece che le pulsioni di autoconservazione hanno anche esse una natura libidica, in quanto portatrici di influssi affettuosi o libidici nei confronti del proprio Io. A questo punto la divisione delle pulsioni non ha più senso, a meno che non venga considerata una tipologia pulsionale diversa: la pulsione di morte o dell’autodistruzione.
A differenza delle pulsioni libidiche, rivolte verso l’evoluzione, cioè verso l’unione sessuale (o meno, come ben aggiunge Jung), e quindi verso la perpetrazione della vita, le pulsioni autodistruttive subiscono un “disimpasto” libidico, cioè si distaccano dall’influsso affettivo, puntando non più verso la conservazione statica dell’Io, ma verso il ritorno ad uno stato di totale assenza pulsionale. Come un kamikaze che punta diritto verso il nemico, la pulsione di morte si separa da ogni interesse di unione, né con alcuno oggetto esterno e né con l’Io stesso, e si avvia ciecamente verso l’autodistruzione.
Il dolore che accompagna la vita e il dolore che torna alla morte
In questa prospettiva il dolore si divide nel dolore libidico, adottando però l’accezione junghiana più ampia della libido, cioè la spinta affettiva in generale, e il dolore autodistruttivo. Il primo è il pathos, il patire con passione, con emotività e ardore, mentre il secondo è il dolore distillato in pura rabbia, cieco, troppo primitivo da poter permettere ogni minima interferenza del pensiero. Il dolore libidico è rivolto verso il superamento della perdita subita e la sua sostituzione con qualcos’altro, un nuovo oggetto sul quale riversare la passione, che sia una persona, un progetto, un significato. Unito alla libido il dolore dispone ancora delle risorse energetiche da investire.
Invece il dolore autodistruttivo vuole tornare al vuoto pulsionale, alla quiete definitiva, in quanto privo di risorse per sanare in qualche modo la perdita. La sofferenza autodistruttiva non ha più l’individualità, non ha prospettive, non ha alternative di azione, non ha più energie e non ha l’interesse per proseguire nell’esperienza della vita. Il dolore della morte non ha più la sua àncora, dato che la libido sia in verità un’àncora di riferimento da lanciare durante il naufragio nel mare della realtà.
Nella visione tragica dei classici, viene considerato soltanto il dolore libidico. Per quanto intenso e insensato, questo tipo di dolore fa parte della condizione umana e va accettato come un elemento costitutivo dell’esistenza stessa. Nonostante la devastazione provocata, il dolore libidico porta con sé una sostituzione salvifica, instaurando in piena concordanza con il principio di realtà una nuova prospettiva, più ricca di significati e più sintonizzata alle vibrazioni sensibili della vita.
Invece il dolore autodistruttivo non può essere contemplato come componente della vita organica, in quanto si oppone decisamente al senso evolutivo dell’intero creato. A questo punto mi sorge un dubbio: l’autodistruttività sarà di origine biologica?
L’interpretazione analitico transazionale conduce verso lo stesso interrogativo
Qui abbiamo a che fare con due aspetti temporali: il tempo lineare bidimensionale e il tempo ciclico a spirale.
Il tempo lineare, statico, è il tempo del Bambino (la maiuscola indica lo stato dell’Io). Il Bambino ha appena imparato che sulla linea retta del tempo ieri è dietro l’oggi e domani sarà da qualche parte, lì davanti a sé. La mancanza di esperienza rende la proiezione del domani molto problematica. Il Bambino sofferente considera la sua perdita definitiva, irremovibile, perché incapace di immaginarsi bene un futuro. Nel tempo lineare infantile la possibilità di riparare una ferita o di sostituire una perdita non esistono, perché le risorse per resistere fino ad un futuro già difficilmente rappresentabile non ci sono.
Il tempo statico fissa le esperienze per sempre e non permette alcuna possibilità di cambiamento. Il dolore di un Bambino è terribilmente “per sempre”, durerà in eternità, è “croce e morte”. Nulla di più straziante. Questa concezione drammatica sull’immanenza della sofferenza si ritrova ovunque nella società, rappresentata benissimo dal teatro, dal cinema e dalla letteratura, e riflette la nevrosi irrisolta di un Bambino che non ha ancora trovato il modo per riparare il suo passato.
Perché la sofferenza si ripete?
Berne immaginò la vita di un bambino ferito come una pila traballante di monete che si erige sulla distorsione iniziale provocata della seconda moneta appoggiata non perfettamente sulla prima. Lì, alla base, magari in un’infanzia ormai seppellita, si trova la prima ferita. Il suo eco lancinante si sintonizzerà immancabilmente con le prossime esperienze simili, rendendo la posizione di ogni successiva moneta sempre più distorta. Finché un giorno la pila si disintegra, come un’identità perduta in un mucchio difforme di innumerevoli errori.
Tutto ciò per colpa della visione temporale ristretta, limitata ad un tempo immobile, rigidamente lineare, in cui gli eventi non trovano mai l’occasione di sovrapporsi per essere cambiati. In realtà, il Bambino intuisce che alla prossima volta magari potrà fare di meglio, agirà con più astuzia o più forza per impedire la perdita, e addirittura ricrea lungo la vita le condizioni per poter ripetere quell’esperienza dolorosa. Ma poi nel momento decisivo le sue emozioni esploderanno con la stessa intensità, se non maggiore, e lo spingeranno ad agire alla stessa identica maniera.
Sono le emozioni le portatrici della rappresentazione primaria difettosa, cioè gli influssi di affettività o le pulsioni associate ad un’immagine mentale o un pensiero statico non più aggiornato alla situazione reale. Un pensiero fissato al dolore iniziale, cristallizzato in un tempo che non c’è più è come un loop dissonante che trascina nel baratro ogni tentativo riparativo o sostitutivo. Quella rappresentazione mentale del passato trascinerà con sé le onde originarie di energia affettiva e spingerà l’individuo all’attivazione del Bambino ferito di una volta. Riattivato, il Bambino ripeterà puntualmente lo stesso cammino di azione già percorso che lo porterà immancabilmente ad una nuova ennesima ferita. E così, una nuova moneta peserà sulla storta torre della sua esistenza.
Chi potrebbe raddrizzare la torre inclinata?
Il Genitore. Il Bambino ferito e inconsolabile non ha alcun scampo, si perderà irrimediabilmente nel labirinto del suo dolore passato, finché il Genitore non si deciderà ad intervenire. Quando l’individuo si rende conto che la responsabilità della guarigione gli appartiene, attiverà il suo stato del Genitore, il quale prenderà tra le sue braccia affettuose il piccolo Bambino, confortandolo e rassicurandolo, dandogli le possibilità e le forze per modificarsi le sue rappresentazioni mentali interne.
Si tratta dell’amore per sé stessi, l’amore per il proprio dolore, per ciò che siamo veramente, cioè dei bambini feriti e troppo piccoli per poter farcela da soli.
Senza quel Genitore amorevole, protettivo e rassicurante, il dolore resterà lì, incastrato in un pensiero che non potrà mai riaggiornarsi, e che attiverà automaticamente gli stessi impulsi e le stesse azioni. L’amore del Genitore interiore trasforma la linea retta del tempo bidimensionale in una spirale tridimensionale, che offre all’uomo la regolarità del ritorno, ma in una dimensione spaziale estesa, cioè sui piani diversi. Il ritorno non è mai allo stesso livello, le esperienze non si ripetono più nelle stesse modalità e con le stesse azioni, tutto cambia a seconda della fase evolutiva in un modo dinamico, pulsante, sintonizzato al flusso di energia che integra la vita in continuo cambiamento.
Il dolore libidico verso la vita o il dolore autodistruttivo verso la morte? Dipende da te!
Quindi il dolore libidico è il dolore che riecheggia ogni volta ad una frequenza diversa, sempre meno acuta, che si scioglie gradualmente nelle rappresentazioni mutevoli del tempo e dello spazio. Si tratta del dolore che guarisce grazie alla risonanza con l’onda gigantesca dell’amore vitale nella quale la vita organica ne è immersa, in virtù della forza centripeta, accogliente, che riporta l’individualità al centro del vortice dell’evoluzione universale.
Mentre il dolore autodistruttivo è il dolore incastrato nella linearità di un tempo che al massimo può mordersi la coda in una circolarità bidimensionale. L’autodistruzione porta verso un mondo passato, inesistente ed incongruente alla vita, in cui l’individualità perde la possibilità di accedere ad altre ampiezze vibrazionali, più ampie, più ricche. La sofferenza conserva il suo acume lacerante e consuma le forze energetiche in un tentativo continuo di reggere alla disintegrazione del sé corporeo e psichico. Fino alla morte.
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